domenica 6 febbraio 2011

Turris Eburnea, di Luca Cenacchi.

I

Quando i primi versi di Luca Cenacchi apparvero per essere letti e giudicati in ristretti circoli di amicizia, la nostra prima impressione fu quella di esser dinnanzi ad una sorta di rottura, ad un vera e propria manifestazione di rabbia ed anticonformismo, anche se queste componenti non si manifestino affatto nella costituzione discorsiva del lavoro in questione. L'accoglienza di tali componimenti, scritti sia in prosa che in versi, è stata, fin dall'inizio, causa di dialettica e, in linea di massima, motivo di sconcerto ed inquietudine per ogni partecipante del progresso critico e sostanziale dell'opera. Siffatti elementi potrebbero creare perfettamente una risonanza “rivoluzionaria” in rapporto alle attuali usanze stilistiche della poesia italiana; con l'espressione “risonanza”, mi riferisco solo a un fruscio, a un rumore violento e tempestoso, perché, in particolare, l'autore non ha cambiato la “forma”, e non pretende nemmeno cambiarla. Anzi, i suoi componimenti sono un continuo tributare alla medesima tradizione disparsa nei già conosciuti “istituti di cultura”, reverenza che provoca, a questo modo, un classicismo scevro di ogni traccia di modernismo, ed è questa, insomma, la cagione principale della stupefazione sia del critico, che del lettore acculturato, dato che si crea un'alternativa ai movimenti affermati e alla tradizione prosastica e riflessiva instauratasi nello scenario della poesia degli ultimi decenni.

Turris Eburnea è un lavoro strutturalmente confuso, ma ben pianificato e, di conseguenza, discretamente fabbricato. Così l'opera è strutturata da un prologo scritto in un Italiano “standard” che, però, è modellato attraverso modi pomposi e ricercati che riverberano certe sfumature legate all'estetismo, sopratutto quello D'annunziano, dato che svela, fin dall'inizio, una totale deiezione della propria vanità. Ecco come il Cenacchi dispregiativo comincia, poco per volta, a mostrare indizi della propria poetica esagerata e, a quanto pare, del proprio stile, caratterizzato da eleganti modi di applicazione del discorso.
In quanto concerne la storia, essa presenta, in torno a questo complesso di codici, la figura di un ragazzino che, deluso dalla superficialità che il potere ha dato in serbo ai mezzi di comunicazione, decide di andare alla biblioteca a coltivare il proprio intelletto attraverso illustri tomi che compongano letteratura settecentesca. E' così come, a causa di una lettura già eseguita delle opere in voga, egli decide di ritornare a casa. Improvvisamente, però, trova un tomo mai letto chiamato “Turris Eburnea”: non il tipico trattato in latino, ma un lavoro “vergato in volgare e composto, in parte, da epistole”. Ed è questo pezzo di carta prisca il fattore essenziale di un viaggio nel tempo che, successivamente, il lettore dovrà svolgere attraverso l'incontro di due amici, di cui uno dovrà leggere le lettere scritte dall'altro. Nelle lettere l'autore descrive i sensi di estrema angoscia di fronte alla decadente condizione della popolazione veneta di allora, ritratto perfettamente interpretabile come un pulitissimo specchio della società occidentale odierna. Oltre questo, si ritrattano, con certa maestosità, gli incontri carnali e spirituali tra l'autore delle lettere ed una “divina fanciulla”.


II

La giovinezza e la vanità sono le cause principali del poetare tanto astruso di Luca Cenacchi. Probabilmente siffatte cause rispondono a una serie di fenomeni stabiliti negli ultimi cinquant'anni nella scena letteraria e socio-politica della repubblica democratica Italiana. Troviamo, però, una causa ancora più intrinseca nella poetica tanto particolare dell'autore: un malcontento generale riguardo la realtà vissuta da una generazione ormai abbandonata da i predecessori e dagli avi che, in un certo qual modo, hanno generato quell'ordine d'individualismo che si manifesta sia nella civiltà odierna che nell'intera poetica dell'autore. In questo modo la giovinezza (teniamo presente l'età giovane dell'autore) diventa un fattore superficiale di fronte alla problematica accennata in precedenza. La quotidianità e la realtà socio-politica dell'Italia dei nostri tempi è un fattore che prende ancora più forza riguardo i caratteri esagerati e aristocratici che l'autore applica alla sua opera. Si potrebbe perfettamente affermare che l'autore di “Turris eburnea” utilizza quel registro antico e oramai superato come risultato di un mero omaggio verso gli autori più noti d'una letteratura riconosciuta come “classica”, oppure che utilizza tali guise come una dimostrazione unica del proprio intelletto e del dominio assai coretto del volgare. Ad onta delle idee esposte, valide per un lettore presso dalla sbadataggine, queste non risultano le cause più profonde d'un poetare tanto estraneo allo scenario poetico moderno. Cenacchi potrebbe essere, senza dubbio, un classicista la cui poetica ha come causa principale nient'altro che caratteri legati al decadentismo, e tutto questo raccordato soltanto ad un solo punto di vista: quello di una sorta di protesta, d'una incazzatura verso la pochezza e la mancanza di valori profondi che manifestano i membri di una generazione che, come ho già segnalato, si è smarrita.

Ora, tenendo in conto il fatto che Luca Cenacchi fabbrichi la propria poetica in funzione di un rifiuto sia morale che linguistico, bisogna approfondire tali aspetti giacché ricadono costantemente nello stile dell'autore. Luca Cenacchi, uomo moralista e reazionario, lancia un urlo pressoché solitario al vento ormai inquinato dalla storia. Ed è attraverso questi occhi che il mondo apparve come lo leggiamo in “Turris Eburnea”: un mondo influito dalla falsa immagine di libertà che, senza usare nemmeno un minimo di coerenza, sparge la sua “amoralità” in modo irrefrenabile. E' questa la realtà che il poeta odia: la mancanza di sacralità nei rapporti umani, la presenza di abitudini e costumi privi di ogni sorta di correttezza e lealtà, e, finalmente, quello che Cenacchi sottolinea con delicatezza abissale: l'ipocrisia e la deplorabile condizione di una società ormai scollegata e disinteressata alla propria ricchezza culturale:

“- Gl'ambienti di codesta urbe, amico mio! Loro che sono infettati d'una moltitudine di tarli, ma quello a me più odioso, resta senza indugio alcuno l'ipocrisia; costoro che dovrebbero sorreggere le beltate di codesta cittate, in quanto sostanza di quest'ultima, si smarriscono invece nella selva che cinse l'almo del poeta, ma a differenza sua , codesti figuri non aspirano a lasciarla, ma, purtroppo, si trastullano con i benefici illusori e temporanei di siffatto loco divenendo, da sezzo, loro stessi (..)”
Ed è pure l'autore, all'inizio dell'opera, colui che individua l'origine di questi fenomeni:

“Immoto sulla sedia, con lo sguardo fisso sul pravo mezzo di comunicazione attraverso il quale viene imposto il servaggio da “monarchi” contemporanei (...)”

La televisione diventa così mezzo di comunicazione che, altroché comunicare, anestetizza la popolazione rendendo l'individuo la componente passiva di una discussione debole tra le parti, compresa quella dell'intellighenzia di un paese :

“ «Un'altra trasmissione indegna di essere trasmessa» sentenzierebbe in modo ridondante, con tono querimonioso, l'intellettualoide diciottenne di turno non accorgendosi che codeste commedie, con precisione chirurgica, intenzionalmente o no, imitano la società odierna in tutta la sua licenziosa e laida contraddittorietà.”

Inoltre l'autore non ha voluto soltanto criticare la società e la letteratura odierna, ma ha tentato anche di rievocare tematiche che, nelle ultime frazioni del XX secolo e nel primo decennio del ventunesimo, venivano trascurate o meno “elevate” da una maggioranza di autori. L'amore, in questo caso, rientra in modo sublimato e costituisce, in parte, il lato illuminato della poetica Cenacchiana. Esso apparve, precisamente, nel momento in cui l'autore delle lettere rivolge al suo amico Andres il proprio sentimento di gioia dopo l'incontro con una “fanciulla” pennellata come una “angelica manifestazione”, oppure, esagerando un po' di più, come la “grazia leggiadra”, che, dopo tutto, alimenterà le fiamme eteree, sperimentando la voluttà della carne tra le braccia dell'innamorato. Tutto non si ferma a questo punto, però. La digressione creata dalla fanciulla e la sublimazione del rapporto con essa rappresentano l'un' percento dell'ottimismo dell'autore. La sua letteratura, ricca di proteste verso una società mondana e povera di spirito, coglie un attimo di speranza a causa dell'enorme felicità generata dall'amore, proprio come un Foscolo o un Goethe nei panni d'un autore epistolare:

“La ho veduta, o Andres, la divina fanciulla; quale angelica manifestazione, quale grazia leggiadra, quale guardo maliardo! Non riuscirò, con artefatti umani, come 'l misero verbo, a rendere giustitia a codesta puella, pero questo, o amico, perdonami. Passeggiavo, stamani, per le via della vetusta scuola, quando, entrato nel caffè del Filosofo, davanti a me, appare codesta fanciulla che, con abiti eleganti, potea sfoggiare corpo pieno di cocinnitas: nelle forme armonioso e misurato; non ricadeva in quelle fattezze triviali scevre d'ogni carme. L'almo mio, subito, si smarria nell'iridi sue, anche s'erano brune come l'abisso, serbavano, nel profondo, lucentezza ubertosa, barbiturica.”

L'autore tenta di sfuggire dagli ordinamenti consumistici attraverso una difesa del mondo antico; manifestazione esemplare di questo atteggiamento è il codice accennato in precedenza. L'autore si serve dell'utilizzo di una guisa prisca, generata dalla lettura di autori che hanno dispiegato il loro pensiero attraverso un italiano non ben definito (oppure il volgare, in molti casi). Questo rende i componimenti dell'autore in questione, un estremista. Eppure si potrebbe affermare la sua predisposizione verso una sorte di “superomismo” d'annunziano giacché egli, quanto artista e cittadino, sostiene e perseguita i motivi che stanno alla base delle note condotte del “poeta vate”: la potenza, la gloria, il disprezzo per le plebi, la concezione aristocratica del mondo e il culto della bellezza. Questo, però, costituisce una delle tanti componenti contraddittorie del lavoro in studio, perché egli non è un “poeta vate”, come pensa di essere. L'autore non ha i caratteri di un “tribuno” (caratteristica essenziale per costituirsi quanto “vate”); la sua letteratura non è rivolta a nessuno, bensì solo a sé medesimo (circostanza che lo lega più al dolente D'annunzio de “Il piacere” che al D'annunzio de “Le vergini delle rocce” o quello de “Il fuoco”).


III

“L'uomo che ritorna alle origini lo fa in quanto desidera comportarsi in quel modo che è eternamente ragionevole. Cioè in modo naturale, intuitivo, conforme alla ragione. Egli non desidera fare la cosa giusta nel momento sbagliato, coprire un bue di bardature, come dice Dante. Non vuole pedagogia, ma armonia, la cosa che è «a tono»”. Certo è che, senza traccie di nazionalismo, l'autore ami la propria terra a causa della magnificenza delle arti che essa ha dispiegato nel trascorso della storia. Il poetare di Luca Cenacchi è, considerato nel suo insieme, un corteggiamento nobile alla correttezza di epoche ormai tralasciate dalle ultime generazioni di poeti Italiani e stranieri. Esso, senza contare la produzione in prosa, cerca, costantemente, la perfezione della forma. Ed è così come la forma assume ruoli importantissimi nella produzione poetica del Cenacchi.
Complessivamente l'opera in questione è formata, come ho ben detto, da narrazioni in prosa e, in certe occasioni, dalla presenza di componimenti poetici aggiunti a siffatte narrazioni. Tali componimenti formano, dall'altra parte, il versante poetico e ossessivo dell'autore. Un ode, un sonetto e un carme finale sono i tre componimenti che rivelano il lato più critico e contemplativo del poeta-scrittore. E' in questo caso che si ribella la “verità” dell'autore: la poesia è, senza dubbio, la manifestazione assoluta del pensiero Cenacchiano: antico, moralista, reazionario, classicista e intollerante. E' così come, non ostante la marea di pensieri espressi in prosa, Cenacchi deposita tutta la sua energia nella “forma” dei suoi componimenti, esprime il fervoroso rispetto per le “regole” che detta la metrica italiana. E questa è un'altra manifestazione della presa di distanze rispetto alla letteratura diffusa da Baudelaire e Whitman e che, successivamente, servirebbe a definire la cosiddetta “avanguardia” e il cosiddetto “modernismo”. Tutto questo cagionato, indubitatamente, da tutti i fattori accennati nei paragrafi precedenti e da una accanita e appassionata lettura dei “classici”, fino ad arrivare al romanticismo. Tale risolutezza viene pure specificata nel documento fisico dell'opera. Il primo componimento, “Venetia”, ode dedicata a siffatta città, è costrutto in sestine rimate, tale come creò il Foscolo, aggiunto da strutture metriche individuate dallo stesso autore:

“(...)Il primo verso d'ogni strofa è un settenario con ritmo trocaico dattilo, ovvero, accenti fissi sempre sulla I, III E VI sillaba, seguono endecasillabi con il medesimo incipit aggiungendo l'accento in ottava e decima sede.

In tale componimento, a differenza della prosa, il carattere classicista ed estremista del Cenacchi prende forma nella ricerca della tanto desiderata perfezione. I giudizi critici contro la società, espliciti nella creazione in prosa attraverso raffinate riflessioni, si trasformano radicalmente in una manifestazione mediata e simbolica: la protesta, in questo caso, non si manifesta più tramite la riflessione, se non attraverso “la forma”. Qui il grido più forte si raggiunge attraverso la parola, la rima e la musica: vie essenziali che conducono l'autore verso l'assoluto:

“A venètia, che sùso
L'acque estòllesi rubelle et altèra;
che'l càpo àureo, al pèlago, giuso
Unqua flèssesi, ma ella indonnòssi
De lo impèro con gran' possa et sènno
Del' Enosìgeo 'l quàle niùno cènno

Tòrse còntra la Reìna;
Unqua, l'inclito Dònno, Poseidòne
Ella offèse, né dùsse Arme divina:
né gl'accòliti suò' nòme, pugnòlla
Ma lo pèlago tutto vegheggiòlla. “

Tale perfezione appare anche nei successivi componimenti: un sonetto intitolato “All'amata” (pezzo aggiunto al capitolo in cui il protagonista della storia racconta il suo incontro con la “divina fanciulla”). Anche qui il rispetto verso le regole è fondamentale. L'autore si contrappone all'evoluzione che il sonetto presentò nel XX secolo, con l'avvento di una letteratura più scorretta e allegata al “dinamismo caotico dei mutamenti sociali”. Poi, come ultimo l'autore presenta un componimento intitolato “carme d'una vita”, poesia posta come sublime accompagnatrice al relato epistolare che da fine all'opera, in cui l'autore sublima la precarietà e l'angoscia del uomo vivo difronte all'incertezza della morte.

A questo punto, però, sorge inevitabilmente una questione vitale: Perché Luca Cenacchi, essendo un cittadino della seconda repubblica democratica Italiana, appartenente ad una “generazione condannata”, come si è visto negli ultimi anni, alla precarietà e alla confusione, conseguenze proprie della storia e di un certo modello di educazione, non si attinge attraverso modelli stilistici accordi al suo tempo? Forse la risposta si trova nelle riflessioni formulate in precedenza. Oppure all'ipotesi che il repertorio esibito dall'autore risponda ad una mancanza di nozioni storico-moderne. Cenacchi ignora, per caso, la storia e il contesto che lo avvolge? La risposta è negativa. Cenacchi conosce il suo tempo, e questo, in qualche modo, provoca il suo odio. Perché Cenacchi è un misantropo, ed esso si architetta come un fenomeno generato da cause puramente ambientali. Non siamo di fronte ad atteggiamenti superficiali o pretensiosi, come si vede nelle strade, bensì a manifestazioni che, per quanto riguarda il nostro tempo, risultano anacronistiche. Qualcuno ha riconosciuto tale situazione come “il risveglio di un classicista che contempla il nuovo mondo, totalmente diverso da quello antico”, interpretazione irrazionale, però non meno valida e più simbolica sotto alcuni punti di vista. Quello che fa Cenacchi non è altro che depositare il suo odio e il suo rifiuto nell'atto creativo. In precedenza abbiamo accennato profondamente il modo in cui siffatto odio si sparge sul foglio bianco: spariscono gli elementi “antipoetici” che caratterizzano la poesia del XX secolo e si dà posto alla valorizzazione di temi trascurati dalla tradizione moderna; la mancanza di sensibilità estetica, propria delle avanguardie, sparisce e si mette a fuoco la risolutezza e il rigore della forma come componente essenziale della creazione poetica; sparisce il senso dell'inevitabilità del moderno e appare il senso del “dovere” verso l'antico e la tradizione culturale alta.
Un marxista potrebbe perfettamente accusare Cenacchi di essere un fascista. Anzi, Cenacchi potrebbe essere stato un sostenitore accanito del Fascismo (si veda D'annunzio e il rapporto tra Ezra Pound e il regime di Mussolini). Ma certo è che Cenacchi non vuole e non se ne intende di queste cose. L'autore è un assoluto pessimista, privo di speranze di ogni tipo. Egli non vuole che la sua letteratura sia uno strumento del popolo ne vuole tornare ai tempi dell'antica Roma. Lui vuole solo ed esclusivamente esprimere le sue preoccupazioni e manifestare il dominio di quello che ne l'Italia ne il mondo riescono a valorizzare con misura appropriata: la cultura, elemento ormai dimenticato dalle masse, ma pretesto che, a causa della trascuratezza di certi organi istituzionali, viene utilizzato come elemento di ardite campagne politiche.
Non credo che sia necessario promuovere il coraggio di questo giovane scrittore. Tutto parla da solo. E, non ostante il mio parziale dissenso riguardo certe concezioni fondamentali , penso che l'autore di “Turris Eburnea” sia, sinceramente, un potenziale elemento fondamentale dello scenario culturale nazionale. Elemento fondamentale perché crea discussione, perché mette a repentaglio concezioni affermate per più di un secolo e perché, insomma, forma l'estrema controparte che, senza dubbio, deve esistere. 

Yerko Andres Sermini.

Nessun commento:

Posta un commento